venerdì 6 novembre 2009

Così Zac ci insegnò a credere che i muri sarebbero caduti

Quando arrivò la notizia che Zaccagnini non era più tra noi, quella sera di vent’anni fa, in poche ore in tanti cominciammo a telefonarci. Improvvisamente ricostruimmo una rete di contatti, di rapporti che in molti casi si erano allentati o interrotti nel tempo.
Ci telefonammo in ogni città d’Italia per parlarci di quel dolore che sentivamo dentro.
A migliaia ci sentimmo d’improvviso come orfani di un padre a cui volevamo un bene intenso. Perché era qualcosa di più, e di più intimo, di un rapporto tra discepoli e maestro. Qualcosa di più, e di più profondo, del rapporto tra un leader e le migliaia di giovani che lui aveva avvicinato alla politica, che avevano iniziato a fare politica grazie a lui.
Ci sentivamo veramente una generazione, i ragazzi di Zac, arrivati a scegliere la Democrazia cristiana quando, dopo le dure sconfitte al referendum sul divorzio e alle amministrative del 1975, il partito aveva imboccato in quel modo imprevisto la strada del rinnovamento, sotto la guida di quest’uomo così diverso dall’immagine grigia e ripiegata sulla sola gestione del potere che la Dc in quegli anni aveva trasmesso al paese.
Qualcuno, anche allora, e ancora negli anni successivi, ironizzò sulla parabola di quell’uomo mite che era improvvisamente approdato sotto la luce dei riflettori. Lo chiamavano l’onesto Zac, dove l’aggettivo “onesto” doveva rappresentare nello stesso tempo un riconoscimento e un limite. Fu proprio quell’aggettivo che a noi ragazzi sembrò una straordinaria dote, così rara in quella stagione: la credibilità personale.
Benigno Zaccagnini era effettivamente un politico diverso dagli altri.
Perché per lui l’impegno era qualcosa che scaturiva come conseguenza inevitabile della sua fede.
In politica non per la fede ma a causa della fede. Non si stancava mai di ripetere ai giovani quella spiegazione.
E in questa motivazione, così impegnativa, c’era il senso di un dovere che non si può ignorare. Quel dovere di mettersi sempre al servizio del prossimo.
Per lui era stato sempre così, e noi lo sapevamo e lo vedevamo.
Sapevamo e conoscevamo questa sua storia avventurosa e complicata, che lo aveva portato a cambiare la sua vita e a dire di sì a domande scomode. Come quando aderì alla Resistenza. O come quando, finita la guerra, dovette cambiare i suoi progetti di vita, di medico, per rispondere alla chiamata della politica.
La politica come carità. La politica come amore del prossimo.
La politica come il campo dove testimoniare la “differenza cristiana”. Fu questa radicale distanza dal modello del politico tradizionale che ci affascinò e ci conquistò. Perché in Zac vedevamo un uomo che usava il potere e non ne era usato.
Lo scrisse bene Walter Tobagi nel febbraio del 1980, tre mesi prima di essere ammazzato dalle Brigate rosse: «Il primo miracolo di Zaccagnini è stato di restituire fiducia ad un partito che pareva destinato al naufragio: l’onesto Zaccagnini, il segretario dalla faccia pulita, il simbolo dell’antipotere che entusiasma le folle, parla ai giovani, risveglia l’anima popolare del partito, reinventa le feste all’insegna dell’amicizia e del confronto-concorrenza con i comunisti ».
Non c’è dubbio che la segreteria di Zac fu una straordinaria intuizione di Aldo Moro e della sua intelligenza politica.
Ma ciò che salvò la Dc fu qualcosa di più e forse di imprevisto: fu la credibilità personale, di uomo capace di ricostruire attorno al partito speranza e fiducia.
Avvenne tutto in pochi mesi.
Zaccagnini cominciò commemorando don Mazzolari, riscoprì il messaggio più autentico dell’ispirazione cristiana, di quel prete di campagna che parlava di “rivoluzione cristiana”.
Poi parlò, come Berlinguer, di una questione morale. E i giovani, tra lo stupore dei notabili che non capivano come quel dirigente ritenuto provvisorio e fragile potesse suscitare entusiasmi mai visti, lo seguirono, lo sostennero, contagiarono gran parte del partito sino a spezzare equilibri e incrostazioni interne.
Eravamo in centomila ragazzi, arrivati chissà da dove, spontaneamente e senza nessuna organizzazione, nella piazza di Palmanova, alla chiusura della prima festa dell’Amicizia nazionale, a sventolare bandiere che non sventolavano più da decenni ascoltando Zaccagnini che, a conclusione di quel discorso, ci diceva: «Il fiore è di nuovo bianco».
C’era, in quelle parole, il senso del nostro orgoglio. Della nostra appartenenza a una grande storia, che veniva da lontano, e che era stata in qualche modo piegata e avvilita.
«È proprio l’ identità democratica e cristiana del nostro partito – diceva Zaccagnini nella replica che concluse il congresso del ’76 – che non ci consente di essere il polo moderato dello schieramento politico italiano, il partito conservatore sottoposto alla volontà dei suoi protettori borghesi, e nemmeno il comitato d’affari del capitalismo italiano, oppure un’organizzazione di pura e semplice occupazione del potere». Sono parole che suonano ancora oggi come scandalose e audaci. E noi, giovani, democratici e cristiani, ci sentivamo rappresentati da un uomo che parlava così. Con un linguaggio che a distanza di tanti anni ha conservato una forza dirompente.
Ci stava stretto un partito moderato. Non ci piaceva un partito condannato a governare e votato solo per il suo essere baluardo anticomunista. Magari turandosi il naso. Ci sentivamo avversari dei comunisti, certo. Ma volevamo con loro una gara virtuosa tra chi aveva le idee più innovative, tra chi si impegnava di più per i propri ideali. Anche questo ci aveva spiegato Zac, con quella frase che per noi è famosa: «Sul piano politico il no al comunismo significa che se essi studiano, noi dobbiamo studiare di più; che se essi lavorano, noi dobbiamo lavorare di più; che se essi sono seri, noi dobbiamo essere più seri; che se essi hanno fede, noi dobbiamo avere più fede e certezza nelle nostre idee di quanta ne abbiano loro».
Nel Pci, in quella grande forza popolare, vedevamo profonde diversità ma anche valori comuni. Quei valori e quegli ideali che avevano tenuto insieme, nella Resistenza, i partigiani bianchi e quelli rossi. E che erano stati tradotti nel lavoro comune per scrivere insieme a persone di altre culture politiche la nostra Costituzione.
Era la storia dell’amicizia tra due ravennati, Benigno Zaccagnini, il partigiano Tommaso Moro e Arrigo Boldrini , il mitico Bulow. Ed era anche la storia dell’amicizia tra mio padre, giovane partigiano, e i suoi avversari politici.
Infine c’è un merito che la storia di questo paese deve ancora riconoscere a Zaccagnini: il ruolo insostituibile che ebbe nella lotta al terrorismo e alle Brigate rosse. Non soltanto per la scelta della linea della fermezza, pagata con una sofferenza atroce, nei giorni del rapimento e del martirio di Moro.
Quella sofferenza che io ricordo bene nei suoi racconti privati, ancora trafitti dal dolore quasi dieci anni dopo, quando nel salotto della sua casa di Ravenna, durante le vacanze di Natale, a me, a Renzo Lusetti, a Gianclaudio Bressa e ad altri figli suoi, raccontava di quei giorni, mostrando nella voce e nelle pieghe del volto quelle ferite ancora aperte.
Ma il merito storico che gli va riconosciuto sta soprattutto nel fatto che soltanto la sua Democrazia cristiana fu in grado di reggere l’impatto drammatico di quei giorni senza essere spazzata via dagli eventi, perché era tornata a essere credibile e popolare nel paese con la sua segreteria e per la sua credibilità personale. Non sarebbe stato così, la Dc non avrebbe avuto la sua forza, se nel luglio del 1975, meno di tre anni prima del rapimento di Moro, il partito non avesse cambiato sostanza e immagine grazie alla sua elezione, ricostruendo il suo rapporto con la società e i ceti popolari.
Oggi, anche per questo, dovrebbe essere ricordato dalla repubblica Italiana come uno dei suoi più autorevoli e determinanti servitori.
Noi lo ricorderemo anche per la sua diversità, per la sua profonda semplicità, per la sua capacità di guardare lontano.
L’11 luglio del 1963, intervenendo alla camera, si rivolse a Togliatti con parole profetiche: «Vi è una barriera che per noi tutte le simboleggia: il muro di Berlino, un muro che per la prima volta nella storia serve non per impedire che altri dall’esterno penetri, ma per impedire che chi soffre dentro la città di Berlino est possa uscire ed evaderne. Noi sappiamo che anche questo muro verrà abbattuto; e non verrà abbattuto dai carri armati, ma dal cammino travolgente delle idee di libertà, di giustizia e di pace che ovunque avanzano nel mondo».
Ci asciugammo le lacrime e ci telefonammo di nuovo in tanti la notte del 9 novembre 1989, mentre guardavamo in televisione i giovani di Berlino che abbattevano con la loro gioia incontenibile il muro della paura e della divisione. Zac se n’era andato appena quattro giorni prima.
Soltanto quattro giorni in più – ci dicemmo quella sera – gli sarebbero bastati per vedere quella notte che lui aveva sognato quasi trent’anni prima.
E avrebbe avuto il diritto di vederla e di viverla, quella notte meravigliosa.
Ma fu quello l’ultimo prezioso regalo di Benigno Zaccagnini ai suoi ragazzi: dimostrare che si può credere ai sogni, dimostrare che avere una fede e viverla come un servizio, può servire davvero per cambiare il mondo.

(intervento di Dario Franceschini alla commemorazione alla Camera nel ventennale della morte di Zaccagnini)

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